La seconda Sezione penale della Corte di Cassazione torna sulle criptovaute con la sentenza n. 27023 del 13 luglio scorso (Pres. G. Diotallevi – Rel. L. Agostinacchio).
Ai giudici del Palazzaccio è stato sottoposto un caso in cui un soggetto agente, l’autore del presupposto delitto di truffa e autoriciclaggio, aveva impiegato le somme oggetto dei proventi illeciti del suo agire attraverso il loro reinvestimento in operazioni finanziarie mediante l’acquisto, con plurime disposizioni bancarie, di valute virtuali tramite Exchange.
Secondo la magistratura, il soggetto agente ha realizzato l’investimento di profitti illeciti in operazioni finanziarie, a fini speculativi, in maniera tale da ostacolare la tracciabilità dell’origine delittuosa del denaro, così risultando colpevole dei reati ascrittigli.
La sentenza in questione, che a ben vedere tratta delle criptovalute in maniera non difforme da qualsiasi altra “utilità” attraverso la quale il reato finanziario o contro il patrimonio può configurarsi, offre diversi spunti per gli operatori del diritto e non solo.
Il caso di specie infatti attiene alla specifica attività di reinvestimento di proventi da attività illecita, oltre che al loro occultamento, e non all’utilizzo di per sé delle criptovalute: secondo l’analisi della S.C. infatti, non è (ovviamente) il mezzo a determinare l’illiceità del comportamento, bensì l’impiego di tale mezzo da parte del soggetto agente.
La moneta virtuale, dal punto di vista dell’applicazione analogica della normativa, non può certamente essere esclusa dall’ambito degli strumenti finanziari e speculativi ai fini di una corretta lettura, nella specie, dell’Art. 648 ter co. 1 del Codice penale, ovvero del reato di autoriciclaggio, il quale individua non già un elenco tassativo delle possibili condotte, bensì delinea delle macro aree che possono formare oggetto di sua applicazione, accomunate dalla caratteristica costituita dall’impiego finalizzato al conseguimento di un utile, da parte del reo, laddove quest’ultimo vuol rendere non più riconoscibile la provenienza delittuosa delle somme oggetto di reinvenstimento.
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